Terapia farmacologica non somministrata alla paziente: legittimo il licenziamento dell’infermiera
Respinta la giustificazione addotta dalla lavoratrice, la quale ha sostenuto di essersi semplicemente attenuta alle indicazioni della società datrice di lavoro, prendendo atto che, all’epoca, mancava l’apposita autorizzazione a prestare assistenza alla paziente, poiché quest’ultima aveva superato il 65esimo anno di età, termine oltre cui non poteva rimanere nella struttura.

Ricostruito nei dettagli l’episodio, verificatosi in una residenza terapeutica psichiatrica, i giudici di merito ritengono, sia in primo che in secondo grado, non contestabile l’operato della società cooperativa che gestisce la struttura e che ha messo alla porta una dipendente – inquadrata come infermiera professionale – colpevole di una grave negligenza nell’esecuzione dei compiti a lei affidati. L’operato negligente dell’infermiera arrecava un pregiudizio all’incolumità della paziente che necessitava sia dell’assistenza sanitaria che della terapia farmacologica assunta da anni.
L’infermiera aveva arbitrariamente deciso di interrompere la terapia farmacologica e la paziente era incorsa in un peggioramento delle già precarie condizioni psico-fisiche.
Tutto ciò era avvenuto, secondo la società, «con grave insubordinazione verso i superiori, che avevano dovuto avvalersi di altro personale infermieristico».
Secondo i giudici di merito, la difesa apportata dalla lavoratrice è risibile poiché il rifiuto di somministrare la terapia alla paziente era del tutto arbitrario perché non riguardante la necessità o meno della cura; tra l’altro l’infermiera non sarebbe incappata in alcuna responsabilità di tipo personale nel continuare l’applicazione del protocollo sanitario. La condotta tenuta dall’infermiera, secondo i giudici, avrebbe fatto venir meno il rapporto di fiducia tra la stessa e il datore di lavoro per cui il licenziamento per giusta causa sarebbe stato legittimo.
Nel ricorso per cassazione l’avvocato che difende l’infermiera punta a ridimensionare la condotta tenuta dalla sua cliente. Sostiene che è illogico parlare di grave insubordinazione, integrante una giusta causa di licenziamento, perché nell’azione compiuta dall’infermiera si riscontra un rifiuto a una direttiva illecita, espressa in forma orale rispetto a direttive scritte. Inoltre, la condotta tenuta dalla lavoratrice non poteva dirsi contraria alle norme di legge e all’etica professionale perché carente dell’elemento psicologico. Secondo i Giudici, però, le argomentazioni della difesa non sono così solide da mette in dubbio la decisione presa in sede di appello dove i giudici hanno ritenuto il comportamento insubordinato della lavoratrice di tale gravità da giustificare il licenziamento.
Per fare chiarezza, poi, dalla Cassazione precisano che «in materia sanitaria, e in particolare in tema di somministrazione farmacologica già in atto, in una struttura convenzionata, il rifiuto di una operatrice di adempiere alla prestazione, costituita dalla continuazione del trattamento richiesta dai superiori, non può ritenersi legittimo per asserite questioni burocratiche, ma solo per motivazioni che possano effettivamente attenere alla necessità della cura e alla tutela del diritto alla salute della degente (come, per esempio, se disposto da personale non autorizzato)». Continuano i Giudici affermando che l’etica alla quale è tenuto il personale sanitario da un punto di vista professionale, imponeva all’infermiera la somministrazione dei farmaci alla paziente così come prescritta dal protocollo farmacologico autorizzato.
È quindi corretto parlare di licenziamento per giusta causa, poiché la condotta tenuta dall’infermiera è stata contraria al senso di umanità e alla deontologia professionale, anche alla luce degli «standards dei valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che impongono, prima di ogni altro aspetto, la tutela incondizionata del diritto alla salute delle persone». (Cass. civ., sez. lav., ord., 15 gennaio 2024, n. 1525)