La perdurante assenza del dipendente non basta a legittimare la risoluzione prospettata dal datore di lavoro
Accolte le obiezioni sollevate da una lavoratrice a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro per intervenute dimissioni comunicatale dall’azienda , che aveva interpretato in questa ottica la sua prolungata e ingiustificata assenza dal lavoro

Alla luce del quadro normativo vigente prima dell’emanazione del cosiddetto ‘Collegato Lavoro’ (di fine dicembre 2024), la perdurante assenza del dipendente non può valere come comportamento concludente che ne manifesta l’intento di dimettersi. Questo il punto fermo fissato dai giudici (sentenza del 26 novembre 2024 della Corte d’appello di Catanzaro), chiamati a prendere in esame le obiezioni sollevate da una lavoratrice a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro per intervenute dimissioni comunicatale dall’azienda , che aveva interpretato in questa ottica la sua prolungata e ingiustificata assenza dal lavoro. In sostanza, la risoluzione del rapporto di lavoro era stata ufficializzata per intervenute dimissioni comunicatale dalla società datrice di lavoro, dopo che la lavoratrice era risultata ingiustificatamente assente per un lungo periodo, a partire dalla fine di dicembre del 2021. In primo grado i giudici avevano ritenuto legittima la linea seguita dall’azienda, poiché la condotta tenuta dalla lavoratrice doveva essere valutata in termini di comportamento concludente che, inequivocabilmente, manifesta l’intento della lavoratrice di recedere dal rapporto di lavoro. Di parere opposto, e favorevole alla lavoratrice, i giudici d’Appello, i quali osservano, innanzitutto, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato può estinguersi per licenziamento, dimissioni o mutuo consenso, ma, aggiungono, anche queste ultime due modalità estintive soggiacciono ad oneri formali la cui mancata osservanza produce l’inefficacia del negozio risolutivo.
Approfondendo la questione, per i giudici d’Appello, dunque, la perdurante assenza della lavoratrice, senza che ad essa si accompagni una manifestazione di volontà risolutiva, non ha alcun significato concludente. Quindi, in questo caso specifico, il rapporto di lavoro deve continuare a permanere fintanto che il datore non ha manifestato la volontà espulsiva, appalesatasi successivamente nella comunicazione con cui la società si è opposta alla riammissione in servizio reclamata dalla lavoratrice. Legittime, di conseguenze, le obiezioni sollevate dalla lavoratrice, che vede qualificato come licenziamento illegittimo l’atto interruttivo del rapporto, con conseguente risarcimento.